mercoledì 10 gennaio 2007

Repubblica 9.1.07
Bersani: "Deluso dall'attacco di Grillo"


ROMA - Beppe Grillo e il ministro Bersani l'un contro l'altro schierati. Fra i due è polemica da quando, in un'intervista a Left, il comico genovese ha definito il titolare allo Sviluppo «un violentatore semantico» una delle persone «più subdole che abbia mai incontrato». Accuse riferite alla questione Cip6: Bersani, secondo Grillo, «nella legge sulle energie rinnovabili che tutti quanti finanziamo pagando la bolletta Enel, all'ultimo minuto ha aggiunto (all'espressione 'fonti rinnovabili', ndr) "e assimilate"» in tal modo «depistando con una parola tre miliardi di euro l´anno». Lettura dei fatti cui ieri il ministro ha replicato: «Non sono nuovo alla battaglia politica, che confesso di preferire verso la destra. Devo dire tuttavia che raramente ho registrato una distorsione così offensiva e paradossale delle mie convinzioni e delle mie azioni. Non mi metterò certo nella lista di chi querela Beppe Grillo, trattandosi di lui, brucia più la delusione dell´offesa. Dov´era Grillo nel gennaio del ‘97? Leggeva i giornali? Risale ad allora, infatti, il decreto con cui, appena divenuto ministro, bloccai tutto il meccanismo degli incentivi alle fonti assimilate alle rinnovabili, il cosiddetto Cip6 che certo non ho contribuito a far nascere».

Repubblica 9.1.07
Ecco come s’inventa un’identità
Un libro fra storia e psicanalisi
Intervista di Craveri a Claude Arnaud


Claude Arnaud ricostruisce le vicende di cinque impostori che hanno cambiato personalità. E ne indaga le ragioni psicologiche e culturali
Benjamin Wilkomirski si attribuisce un passato di ebreo e di sopravvissuto ai campi di sterminio
Il caso del regista Erich Von Stroheim, che a Hollywood si spaccia per un nobile austro-ungarico
Il nostro corpo era accettato come una fatalità. Ora può essere ridisegnato, dal sesso al colore della pelle
Non siamo più il prodotto di ciò che ci ha preceduto, ma tendiamo a definirci partendo da noi stessi

Parigi. Il saggio che ha vinto il Prix Femina 2006, un libro che Pascal Bruckner sul Nouvel Observateur non ha esitato a definire "vertiginoso", ha un titolo - Qui dit je en nous? (Grasset, pagg. 435, euro 20,90)- la cui traduzione letterale - Chi dice io in noi?- non consente però di cogliere il gioco di sottintesi del francese a partire dal doppio pronome je e moi. Il suo autore, Claude Arnaud, vi affronta intrepidamente un problema antico quanto la civiltà occidentale e su cui, a partire dal socratico "conosci te stesso", non abbiamo mai smesso di interrogarci: il problema dell´identità o, più precisamente, quello della sua "reinvenzione" nel mondo contemporaneo. Forte della sua esperienza di biografo, di romanziere e di critico, Arnaud costruisce la sua inchiesta a partire dallo studio di cinque casi patologici, di cinque grandi impostori che, in un arco di tempo che va dal Cinquecento fino ai giorni nostri, gli consentono di mostrare come l´idea stessa di identità cambi con il mutare delle mentalità e delle culture. Tra i meriti del libro vi è quello di saper fondere felicemente il tempo del racconto a quello della riflessione senza che si avverta mai un cambiamento di tono.
Arnaud ha l´arte di svegliare l´attenzione del lettore, di renderlo partecipe dei suoi interrogativi e di seminare il dubbio con la forza persuasiva degli spiriti indipendenti. Siamo andati a chiedergli di ripercorrere alcuni dei momenti centrali della sua indagine.
Cosa l´ha spinta a passare da grandi scrittori dalla personalità complessa, contraddittoria, all´insegna della metamorfosi come Chamfort e Cocteau, allo studio di uomini che hanno reinventato se stessi, assumendo un´identità che non era la loro non già sulla pagina ma nella vita reale?
«Un interesse molto forte per il problema dell´identità, problema che mi ha sempre appassionato e che conosco bene per averne fatto l´esperienza di persona. Ho impiegato io stesso molto tempo per "costruirmi" e per poi "decostruirmi" e ho conosciuto cambiamenti importanti anche nella sfera della vita intima. Questo mi ha indotto a credere che l´identità sia una costruzione e una costruzione non sempre definitiva. Inoltre penso che la nostra epoca incoraggi sempre più questa "costruzione" identitaria e tenga sempre meno in conto i fattori ereditari. Non siamo più il prodotto di ciò che ci ha preceduto - antenati, patria, religione - e tendiamo a definirci in primo luogo a partire da noi stessi. L´identità non è più un blocco compatto ma un assemblaggio che mettiamo insieme noi stessi. Per questo ho preso in esame dei casi di persone che si sono deliberatamente fabbricate delle identità diverse dalla loro».
A cosa è dovuto questo cambiamento?
«Al venir meno dei grandi legami collettivi, al trionfo ideologico dell´individuo che vuole corrispondere alle sue aspirazioni, anche a costo di inventarsi. La storia non è più un fattore decisivo nella definizione di sé, perché la si studia sempre meno ed ha cessato di essere un riferimento essenziale, così come la religione non è più un insegnamento obbligatorio e anche il numero di coloro che la praticano diventa sempre più esiguo. In passato ci si sentiva debitori della propria vita a Dio e alla famiglia, ora si deve rendere conto di ciò che si crede di essere soltanto a se stessi e al proprio psicanalista. E lo psicanalista lavora a decostruire il nostro io per poi ricostruirlo. La scatola di Pandora è molto più che aperta, è spalancata!».
Lei sostiene che la nostra capacità di costruirci delle nuove identità si è andata "democratizzando" su vasta scala perché oggi ci si può avvalere di mezzi pratici che prima non esistevano.
«Certamente, a cominciare dagli aspetti propriamente fisiologici. Il nostro corpo, che fino a una ventina d´anni fa era vissuto come una fatalità - nascevamo e morivamo con gli stessi connotati fisici - , oggi può essere ridisegnato, modificato, corretto. Si può cambiare di lineamenti e di colore di pelle (pensiamo a Michel Jackson), come di sesso (ci si può, a seconda dei casi, dotare di seni, di pene ecc.). E a queste trasformazioni chirurgiche può corrispondere ugualmente il cambiamento dello stato civile».
A parte il primo caso da lei preso in esame, quello famosissimo del falso Martin Guerre che si verifica nel XVI secolo e a cui la storica Natalie Zemon Davis ha dedicato nel 1983 un bellissimo libro, seguito da ben due film, le altre storie che lei ricostruisce - quella del cineasta ebreo Erich von Stroheim che a Hollywood si spaccia per un aristocratico dell´esercito austro ungarico, quella di Kurt Gernstein che diventa nazista per combattere il nazismo dal suo interno, quella di Jean-Claude Romand che massacra moglie, figli, genitori per nascondere loro di essere un fallito - si sono tutte verificate nel corso del Novecento. Tuttavia, nonostante i secoli trascorsi, vi è una vicenda di segno opposto a quella di Martin Guerre - una mistificazione la cui posta in gioco non è la prospettiva di una vita migliore ma l´appropriazione delle sofferenze altrui -, che pur non incorrendo in alcuna condanna giudiziaria ha ugualmente scatenato uno scandalo teologico. È il caso di Benjamin Wilkomirski, un orfano di guerra, adottato da una famiglia tedesca protestante che, diventato adulto, si inventa un passato di ebreo e afferma di essere un sopravissuto dei campi di sterminio.
«Quello di Wilkomirski è effettivamente un caso affascinante perché egli utilizza e abusa di questo diritto dei giorni nostri di diventare ciò che sentiamo di essere e non quello che gli altri - la famiglia, l´anagrafe ecc. - dicono di noi. Oggi, quantomeno nelle società democratiche e superevolute, è la nostra verità individuale a prevalere su tutto. Se un uomo si percepisce da sempre come una donna, può chiedere alla chirurgia e poi all´anagrafe di cambiare di sesso. E non solo la giustizia lo asseconderà ma proibirà a chicchessia di contestare legalmente il fatto che sia nato con quei connotati sessuali. Una legge con effetti addirittura retrospettivi! Dunque, intorno ai vent´anni, Wilkomirski si sforza di ricostruire la sua infanzia e, affascinato da tutto quello che ha a che fare con Israele, si convince di essere ebreo. Recatosi varie volte in Polonia, egli incomincia a riconoscere i luoghi dov´era stato deportato. E a rendere la vicenda ancora più sconvolgente si aggiunge il fatto che ad aiutarlo a venire a capo del suo dramma identitario non sono solo gli psichiatri ma le organizzazioni israeliane che si dedicano a ridare una identità agli orfani ebrei che hanno perso persino il ricordo dei loro genitori. Dunque Wikomirski è circondato da medici, psicanalisti, assistenti sociali ebrei che lavorano tutti a farne un ebreo, rafforzando la convinzione che mette progressivamente radice in lui di essere un figlio d´Israele».
Poi qualcuno lo smaschera.
«Nel 1995 Wilkomirski pubblica i suoi ricordi atroci di bambino deportato. Tradotto in nove lingue (anche in italiano, da Mondadori) Frantumi. Un´infanzia (1939-1948) viene premiato dalle più importati associazioni culturali ebraiche e salutato dalla critica come "un puro capolavoro sgorgato dall´indicibile", mentre Wilkomirski tiene conferenze in tutto il mondo per spiegare le modalità -psicanalisi, auto-ipnosi, tecniche mnemoniche - grazie a cui ha ritrovato la sua identità originaria. Ma ecco che un giorno un giornalista svizzero, figlio lui pure di deportati ebrei, venuto a intervistarlo, avverte nel suo comportamento qualcosa di sospetto. Wilkomirski ha uno stile teatrale, indulge a ricordi terribili e piange, mentre il giornalista sa da suo padre che quando i sopravvissuti dei campi si incontrano evitano di parlare di quanto è loro successo e qualora ciò avvenga non piangono mai. Prende così avvio una inchiesta che dimostra che Wilkomirski è un finto ebreo e che "ha dei ricordi che non sono suoi". Quello che più mi interessa di questa storia è che Wilkomirski non è un impostore volgare, è un mitomane con un profondo problema di identità. Come accade a tanti, egli desidera una nuova identità, ma la sua scelta di assumere quella del deportato, vale a dire della vittima per antonomasia del mondo moderno, non può non apparirci empia. Inoltre la sua impostura ha rischiato di mettere in dubbio la verità delle moltissime testimonianze autentiche della Shoah e di prestare il fianco alle tesi dei revisionisti. Penso che nel caso Wilkomirski bisogna distinguere questo elemento sacrilego - sostenere di essere stato un deportato - dal desiderio di essere ebreo. Un desiderio non meno legittimo di quello di un cristiano che vuole farsi buddista o di un ragazzo che vuole cambiare sesso».
Ma quali sono le responsabilità della psicanalisi in tutto questo?
«È un problema terribilmente complicato, ma volendo semplificare si può dire che con Freud la psicanalisi ha diffuso la nozione di molteplicità dell´io e ha mostrato i meccanismi attraverso cui l´identità si costruisce per stratificazioni successive, pur rimanendo a uno stato di continua mutazione. La psicanalisi, è vero, non pretende di dire la verità di un individuo e si limita generalmente ad aiutarlo a rimescolare le carte che ha in mano, mostrando che le carte sono quelle ma il gioco non è fatto, tuttavia deve confrontarsi con un dilemma enorme. Come bisogna comportarsi quando ci si trova davanti qualcuno come il falso Wilkomirski che si sente ebreo, che è convinto che i suoi genitori adottivi gli abbiano nascosto il fatto di essere stato deportato? Se da un lato la psicanalisi ci ha mostrato fino a che punto l´identità era una costruzione in atto, dall´altro non ha i mezzi per dire fino a che punto questa costruzione o ricostruzione sia legittima».
A quali conclusioni è approdato alla fine della sua inchiesta? Qual è la sua diagnosi sullo stato di salute dell´identità al punto in cui siamo?
«Un dato estremamente positivo è che non siamo più determinati come in passato dal contesto familiare e storico in cui ci troviamo a nascere e penso che non ci sia niente di male se qualcuno che si sente diverso da quello che è possa diventare ciò che desidera essere. È il libero arbitrio esistenziale dei tempi moderni. Tuttavia, in questo sistema senza passato e senza memoria, in cui tutto si fa nell´immediato, in tempi reali, è anche evidente che il rifiuto dell´eredità può indurre facilmente all´impostura. L´identità non è un´essenza, una verità definitiva, ma rimane un bisogno psichico fondamentale e ciò che colpisce oggi sono le sofferenze delle persone che, sprovviste di identità, non hanno gli strumenti per costruirsene una che tenga. Sono liberi ma non hanno i mezzi per esserlo fino in fondo e dunque fanno del bricolage, con tutti i rischi che questo comporta».

Corriere della Sera 9.1.07
Compromessi con il nemico
di Emanuele Severino


La Chiesa parla al mondo, cioè allo Stato; da quando esiste, ha avuto a che fare con Stati autoritari, la democrazia è un fenomeno recente: ma il dialogo tra Chiesa e Stato non può essere che un compromesso.
Che l'arcivescovo dimissionario di Varsavia Stanislaw Wielgus abbia collaborato con il regime comunista non deve dunque troppo sorprendere.
Se i nemici non dialogano, combattono a occhi bendati. Questi, però, son nemici che hanno in comune alcuni tratti non secondari.
La Chiesa è assolutismo religioso; il comunismo è assolutismo politico. La Chiesa si è sempre voluta servire dello Stato; lo Stato della Chiesa.
Ognuno dei due vuole che la dottrina e l'agire da essi proposti siano lo scopo della società.
Ognuno vuole distruggere l'altro. Non si tratta di una deviazione della «Chiesa di pietra» dalla «Chiesa dei santi».
La Chiesa è dei santi proprio perché vuol distruggere quel che a suo avviso è l'errore. Gesù è il santo per eccellenza. Dicendo di dare a Cesare, ossia allo Stato, quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, Gesù non vuole che a Cesare venga dato qualcosa che sia contro Dio: vuole che Cesare non si opponga a Dio, e che pertanto le leggi dello Stato abbiano come scopo quelle di Dio — del Dio di Gesù e, poi, della Chiesa. Dire che la Chiesa è assolutismo religioso non è «laicismo».
La si offenderebbe negando che essa sia teocrazia. Nemmeno in Polonia la Chiesa può aver voluto il comunismo, ossia un Cesare le cui leggi si opponessero a quelle di Dio.
Se un membro della Chiesa l'avesse fatto, l'avrebbe fatto come nemico del cristianesimo.
Va però anche aggiunto che, se nei Paesi comunisti la Chiesa ha avuto bisogno del compromesso col potere, diventa più difficile sostenere che essa sia stata l'artefice del crollo del comunismo.
È l'ultimo caso grandioso, tale crollo, del tramonto ormai secolare, che è destinato a travolgere anche le forme superstiti di assolutismo, come quella religiosa e quella economica.
L'assolutismo economico del paleocapitalismo, che si ritiene la forma definitiva di produzione della ricchezza, tende a essere oltrepassato da una concezione «sperimentale» del capitalismo, dove si ammette la possibilità del fallimento della sperimentazione.
Anche la Chiesa condanna le forme teologiche che in qualche modo ripropongono in senso «sperimentale» l'esistenza religiosa. La recente conversione della Chiesa alla democrazia è spiegabile in modo analogo al movimento del capitalismo nella stessa direzione.
Già Max Weber rilevava la maggior consonanza tra capitalismo e democrazia, rispetto a quella con lo Stato totalitario.
Ma il vero motivo è che in effetti quest'ultimo è, per il capitalismo, un ostacolo ben più consistente della democrazia procedurale. Lo stesso accade alla Chiesa, che alla democrazia, figlia dell'Illuminismo, ha preferito lo Stato autoritario, dove l'assenza dell'opposizione rende più agevole il dialogo e il compromesso.
Adottando la democrazia, Chiesa e capitalismo hanno sempre tentato, e con maggiori probabilità di successo, di modificarla: la Chiesa, condannando in essa «la libertà senza verità», ed esigendo che la «verità» a cui la democrazia deve adeguarsi sia da ultimo la verità cristiana; il capitalismo, impedendo che la «solidarietà» abbia a subordinare a sé l'«efficienza».
E anche il capitalismo è un Cesare a cui non si può dare quel che è contro Dio. Per la Chiesa il fine non giustifica i mezzi; ma è della Chiesa anche la dottrina della preferibilità del male minore.
Forse in Polonia, e altrove, minor male è stato dare provvisoriamente a Cesare qualcosa di quel che è contro Dio, sperando che da ultimo, davanti a Dio, egli avesse a inginocchiarsi.

Repubblica 9.1.07
Le mille notti di Shahrazad
Tre diverse edizioni del capolavoro della letteratura araba
Un testo democratico per i dotti e gli ignoranti
diversa anche la geografia india, persia, iraq, egitto
È una vicenda ora ricostruita da Mirella Cassarino, Roberta Denaro e Vincenzo Cerami
Una storia editoriale infinita dietro il libro che celebra l´arte del raccontare
di Franco Marcoaldi


«Andavo già a scuola da qualche mese, quando accadde una cosa solenne ed eccitante che determinò tutta la mia successiva esistenza. Mio padre mi portò un libro. Mi accompagnò da solo nella stanza sul retro dove dormivamo noi bambini e me lo spiegò.
Era The Arabian Nights, le Mille e una notte in una edizione adatta alla mia età. Sulla copertina c´era un´illustrazione a colori, se non sbaglio di Aladino con la lampada meravigliosa. Il papà mi parlò in modo molto serio e incoraggiante e mi disse quanto sarebbe stato bello leggere quel libro. Lui stesso mi lesse ad alta voce una storia: altrettanto belle sarebbero state tutte le altre».
Elias Canetti è appena entrato nel suo settimo anno di vita quando incontra sul suo cammino il volano di tutte le storie, il trionfo della narrazione infinita, il libro dei libri. Come rammenta nel primo volume dell´autobiografia, La lingua salvata, dopo l´iniziazione ad opera del padre che gli lesse ad alta voce la prima di quelle novelle, ora, scrive, «dovevo cercare di leggerle da solo e poi la sera raccontargliele. Quando avessi finito quel libro, me ne avrebbe portato un altro. Non me lo feci ripetere due volte e sebbene a scuola avessi appena finito di imparare a leggere, mi gettai subito su quel libro meraviglioso e ogni sera avevo qualcosa da raccontargli. Lui mantenne la promessa, ogni volta c´era un libro nuovo, così che non ho mai dovuto interrompere, neppure per un solo giorno, le mie letture».
Nel più semplice e incisivo dei modi, Canetti ci indica così il valore ultimo delle Mille e una notte: una volta entrati in quel mondo, non si potrà più rinunciare alla malia del racconto e dunque alla passione per la lettura. Il che non implica, sic et simpliciter, un giudizio acriticamente entusiasta su quello che il nostro arabista Francesco Gabrieli definiva un «insigne palinsesto del folclore d´Oriente», nel quale si alternano pagine memorabili con altre più modeste e ripetitive. Resta il fatto, comunque, che dopo essere usciti da quel concatenato profluvio di profumi e colori e perfidie e malizie e incantesimi e violenze e dolcezze si rimane tramortiti. E anche se non si è costretti a indossare i pericolosissimi panni di Shahrazad, che deve utilizzare tutta la sua astuzia per differire con successo il momento della morte, proprio grazie alla sua lezione apprendiamo una volta per sempre quale forza salvifica sia insita nell´arte del racconto. Allo stesso modo, pur non essendo Stendhal, Poe o Proust, che si abbevereranno con foga a quella fonte ispiratrice, ciascuno di noi sarà perfettamente consapevole di essere appena riemerso da un´inesauribile miniera di sensazioni e fantasie. Nella quale potremo tuffarci e rituffarci da ragazzi e da adulti senza rimanere mai delusi né sazi.
In tal senso Le mille e una notte incarnano al meglio l´idea di libro "democratico", capace di soggiogare in eguale misura il dotto e l´ignorante. Sì che non soltanto Canetti, ma anche il lettore comune - riprendendo in mano quelle storie - sarà sospinto a tornare con la mente alla propria personale iniziazione, alla prima edizione capitatagli per le mani. Con ogni probabilità ben diversa dalle Arabian Nights di canettiana memoria.
D´altronde, così come il racconto di Shahrazad è tendenzialmente infinito (e proprio in questo trova la sua massima ragione di forza), altrettanto infinita (e inafferrabile) è stata la tumultuosa vicenda editoriale delle Notti. Con storie che compaiono e scompaiono a seconda dell´edizione, e quando rimangono inalterate possono conoscere diversi sviluppi e nel caso in cui questo non accada oscillano nel registro linguistico prescelto e vedono equilibri diversi e cangianti tra parti poetiche e in prosa, tra realismo e iperbole fantastica, tra imbellettamenti esotici e crudezze pornografiche, slanci lirici e accensioni di misoginia e razzismo. Insomma, il libro che si legge non è mai - fino in fondo - lo stesso.
Pertanto non c´è da meravigliarsi se il florilegio editoriale continua ininterrotto e solo negli ultimi mesi sono uscite tre diverse edizioni (o riedizioni): le storie più belle delle Mille e una notte (a cura di Mirella Cassarino, con un saggio di Abdelfattah Kilito), scelta antologica della prima traduzione dall´arabo coordinata da Francesco Gabrieli nel 1948 (Einaudi, pagg. XXIV, euro 16,80); Le più belle fiabe delle Mille e una notte raccontate da Arnica Esterl e magnificamente illustrate da Ol´ga Dugina (nella collana "i cavoli a merenda" di Adelphi, pagg.87, euro 20) e infine e soprattutto Le Mille e una notte nell´edizione critica condotta sul più antico manoscritto arabo da Muhsin Mahdi, a cura di Roberta Denaro e con un´introduzione di Vincenzo Cerami (Donzelli, pagg. XVII, euro 29,50).
Del resto, se tradurre è tradire, la storia editoriale di questa opera-mondo è da subito una storia di tradimenti. Da quando nel 1704, a Parigi, l´orientalista Antoine Galland, accostando a un manoscritto arabo proveniente dalla Siria i racconti orali di un maronita di Aleppo, riscrive a suo gusto per i francesi l´immagine di un Oriente mitico e fantasmatico.
Il successo è immediato, clamoroso, e da allora non ha conosciuto interruzioni di sorta. Se ora volete ripercorrere la labirintica vicenda che nel corso dei secoli si dipana attorno alle Mille e una notte, potete leggere in parallelo le diverse ricostruzioni e interpretazioni offerte da Mirella Cassarino nell´edizione einaudiana e da Vincenzo Cerami e Roberta Denaro nell´edizione Donzelli. E magari compararle con il vecchio saggio di Gabrieli. Vi avventurerete in una storia testuale e editoriale che non vi sembrerà meno intricata delle novelle raccontate da Shahrazad. Assisterete all´assommarsi di svariate tradizioni culturali e a continue «trasmigrazioni geografiche» (tra India, Persia, Iraq, Egitto). E infine al succedersi di nomi di traduttori - quali Galland, Lane, Burton e tanti altri - l´un contro l´altro armati nel tentativo di annullare il lavoro precedente, per giustificare la bontà del proprio, come perfidamente annotò Borges.
L´ultimo tentativo di sciogliere questo intricatissimo nodo gordiano va ascritto all´ultradecennale lavoro di Mushin Mahdi, grande arabista e professore all´Università di Harvard, che ha pubblicato la prima edizione critica (la stessa proposta ora in italiano da Donzelli), basata su un manoscritto in tre volumi proveniente dalla Siria e depositato presso la Bibliothéque National di Parigi. E´ questa l´unica fonte scritta sicura tra quelle utilizzate da Galland, rammenta nella sua postfazione Roberta Denaro: si tratta del prologo e di 282 notti.
Il resto fa parte di un´operazione culturale ineffabilmente spregiudicata, volta ad appagare l´Europa e a innescare le crescenti manipolazioni dell´orientalismo. Anche se è interessante notare, a riguardo, la posizione di un intellettuale quale Abdelfattah Kilito, così come viene esposta nella sua nota al libro einaudiano. Le mille e una notte, scrive l´autore de L´occhio e l´ago, sfuggono al controllo di ogni accademia e di ogni canone. Per essere comprese «non necessitano che di un minimo di competenza linguistica e letteraria, quanto serve per accostarsi a un fumetto. Al diavolo dunque il commentatore, il letterato, il professore. Il testo, e solamente il testo, potente e sovversivo». Con un´ulteriore complicazione: perché, a differenza degli altri grandi libri dell´umanità, nel caso delle Notti «abbiamo solamente simulacri del testo che si suppone originale. In queste condizioni, chi intraprende una ricerca sulle Notti è tenuto a navigare a vista in mezzo a una nebulosa di edizioni disponibili che sono tutte, ma a livelli diversi, edizioni mancate».
Un caso a parte è rappresentato per l´appunto da Muhsin Mahdi: il risultato del suo lavoro «è ammirevole». Riproducendo però soltanto i racconti del nucleo originario delle Notti, finiscono per rimanere fuori storie come quelle di Sindbad o della città di rame. Così, «pur convenendo con le sue argomentazioni», il lettore rimane un po´ deluso «dal non ritrovare storie che gli sono care e che, in cuor suo, hanno sempre fatto parte delle Notti.
Come dargli torto? E´ difficile rinunciare ad Aladino. Sicché, paradossalmente, proprio l´imprescindibile lavoro di Muhsin Mahdi, finisce per riconfermare la natura consustanzialmente fluida e magmatica delle Mille e una notte. Una storia che sembra non avere inizio e non avere fine.
Non solo nel libro che dovrebbe contenerla, ma anche al di fuori di esso. Come dimostrano le Notti delle mille e una notte (Feltrinelli), in cui il premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz si chiede e ci chiede: cosa è accaduto a Shahrazad dopo che ha avuto salva la vita? E il sultano Shahriyar, rapito dai racconti della giovane donna tanto da graziarla e prenderla in moglie, avrà finalmente capito la lezione? Avrà messo da parte, una volta per tutte, la sua mortifera misoginia?

Repubblica 9.1.07
Il "dizionario" a cura di Silvio Pons dell'Istituto Gramsci
Tutti i nomi del comunismo
Alla lettera "K", i khmer l'eccidio di katin, il kgb
una risposta fallimentare alla modernità
di Miriam Mafai


Il comunismo è morto. Da quasi vent´anni, ormai, travolto dalle macerie del muro di Berlino. Quello che Marx aveva chiamato «il fantasma che si aggira per l´Europa» si è rifugiato ormai nell´isola di Cuba, in qualche sperduta landa dell´America Latina, e a Pyongyang nella Corea del Nord. E non fa più paura ha nessuno. Ma il morto non aveva avuto finora adeguata sepoltura.
Una sepoltura degna di un´idea che nel corso del secolo passato, dopo aver conquistato il pensiero e il cuore di centinaia di migliaia di uomini, si era trasformata e realizzata in una potente organizzazione politica e sociale che aveva piantato le sue bandiere vincenti su tanta parte del mondo. A quella ormai urgente e troppo a lungo rinviata sepoltura provvede, da noi, un´opera di cui esce oggi una robusta prima parte.
L´opera è curata da Silvio Pons, direttore dell´Istituto Gramsci e da Robert Service, dell´Università di Oxford, che si sono avvalsi della collaborazione di numerosi studiosi italiani e stranieri, altrettanto autorevoli. (Dizionario del comunismo nel XX secolo a cura di Silvio Pons e Robert Service, Einaudi, vol. I, pagg. 535, euro 68). Dizionario che raccoglie dunque sotto una unica definizione e vicenda, come un fenomeno storico globale e sostanzialmente unitario, i comunismi che si sono realizzati in paesi ed epoche diverse dal 1917 in poi. Comunismi che furono, in qualche misura, diversi l´uno dall´altro (e persino in alcuni periodi ostili l´uno all´altro) ma tutti riconducibili ad una unica ispirazione culturale e politica, che va per lo meno da Marx a Lenin.
Il primo volume di questo dizionario, raccoglie 193 lemmi, sui 400 previsti, da «Alfabetizzazione» e «Autocritica» a «Lunga Marcia» e «Luxembourg Rosa».
Cinquecento pagine di parole e nomi, persone e fatti in ordine alfabetico, su due colonne. Come si addice, appunto, a un dizionario. Con una scrittura controllata, asciutta, che sembra voler ignorare emozione o indignazione. E, proprio per questo risulta forse più efficace.
Eccoci dunque al dizionario. Ecco le brevi ma esaurienti biografie di uomini e donne che hanno segnato la storia del comunismo, da Gramsci a Berija, da Otto Bauer a Boris Eltsin, da Janos Kadar a Berlinguer, da Kim Il Sung a Vladimir Lenin. Ed ecco, nel rigido ordine albafetico, le guerre che nel corso del secolo passato sono state combattute a difesa del comunismo o per promuoverne l´espansione: dalla Grande Guerra patriottica, alla occupazione dell´Afghanistan, dalla guerra di Corea alla Guerra fredda. Ed ecco, anche queste rigorosamente in ordine alfabetico le parole che hanno battezzato i temi, i miti e le tragedie che hanno contrassegnato la vita del comunismo. Alla lettera «C» troveremo dunque i campi di lavoro, le carestie, la collettivizzazione forzata. Con le rispettive tragedie e vittime. E la censura (ma è singolare che si sottovaluti qui la critica feroce cui nell´immediato dopoguerra vennero sottoposti, ad opera di Zdanov, intellettuali come Shostakovic e Achmatova) Alla lettera «D» troveremo la deportazione delle nazionalità, la destalinizzazione, il dispotismo, il dissenso. Alla lettera «G», c´è il Gulag e la guerra civile spagnola. Alla lettera «K», l´eccidio di Katin, il KGB, i Khmer rossi.
Per ogni lettera, una parola, una persona, una vicenda, una tragedia. Ricostruita senza retorica né indignazione da studiosi che intervengono sulla materia come un medico cui sia affidata un´autopsia. Il filo conduttore di queste cinquecento pagine di nomi, di eventi, di tragedie è il comunismo esaminato e descritto come fenomeno unitario, con tutte le sue promesse, le sue ambizioni. E la sua insensatezza.
A differenza del famoso Libro nero del Comunismo che, pubblicato in Francia poco più di dieci anni fa, ebbe grande successo in tutta Europa e anche in Italia, questo Dizionario non intende offrirci soltanto un bilancio della repressione messa in atto dai regimi comunisti. Il bilancio, per chi amasse questo tipo di contabilità, ognuno lo potrà farselo da solo annotando, voce dopo voce, il numero delle vittime. Alla voce Grande Terrore troverà descritte le cause e le caratteristiche del fenomeno che segnò gli anni 1937-38 in Urss. E, naturalmente, il numero delle vittime. Lo stesso potrà fare leggendo il testo dedicato al Grande Balzo in avanti organizzato nel 1957 nella Cina da Mao, per superare, d´un balzo appunto, l´arretratezza economica del paese. E ancora, quanti furono i detenuti e le vittime del sistema dei Gulag, negli anni che vanno dal 1929 al 1954? Quante le vittime della carestia del 1932-33, il cosiddetto Holodomor, di cui gli ucraini chiedono oggi il riconoscimento internazionale?
Le cifre, insomma, anche in queste pagine ci sono. Ma non si capisce il comunismo, fenomeno che resta al centro della tragedia del XX secolo, (e non si riesce nemmeno a dargli degna sepoltura dopo averne registrato il fallimento) se non se ne analizzano le origini, le cause, le ragioni della sua durata, al di là della pura politica di repressione e violenza. E le ragioni del fascino che esercitò così a lungo in gran parte del mondo occidentale, e soprattutto in Europa.
Gli autori tentano di dare una riposta a questi interrogativi.
Secondo Silvio Pons il comunismo può essere studiato e definito come «una risposta fallimentare alla modernità». Il fallimento era iscritto nelle stesse basi politiche e culturali del fenomeno «basi fragili o forzose, prive di risposte ai problemi della modernità a cominciare dal tema dello sviluppo economico». Ai problemi della modernità, dello sviluppo della produzione e dell´allargamento dei consumi e, insieme, della correzione delle disuguaglianze, il capitalismo è riuscito e riesce tuttora a dare una risposta che pur parziale e contraddittoria raccoglie, in regime di democrazia, un sufficiente consenso. (Anche grazie alla pressione esercitata in ogni paese dei rispettivi partiti socialisti e socialdemocratici) Non è il migliore dei mondi possibili, quello contrassegnato dalle economia capitalistica, ma lascia aperta la possibilità di una riforma, una correzione, un miglioramento. Il comunismo, con le sue rigidità politiche e ideologiche, ha reso impossibile ogni velleità di autoriforma nei paesi nei quali pure aveva vinto. (Vedi alla voce Gorbacev. Ma in questo primo volume del Dizionario manca la voce Cina, unico paese nel quale un partito che si definisce comunista sta portando avanti, a tempi accelerati un processo di modernizzazione del paese escludendo contemporaneamente ogni apertura alla democrazia).